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L’uomo che disegnò Dio Recensione



Atteso con una certa curiosità, anche per le partecipazioni eccellenti di Faye Dunaway e Kevin Costner, L’uomo che disegnò Dio di Franco Nero è una bizzarra commedia con intenti morali. La recensione di Daniela Catelli.

Franco Nero è probabilmente uno degli attori italiani più famosi al mondo: non solo per Django, il western del 1966 che è servito come modello del genere a più generazioni di cineasti, tra cui (ovviamente) Quentin Tarantino, ma anche per i suoi ruoli internazionali. Nelo stesso anno dell’uscita del movie di Corbucci, John Huston lo scelse come Abele ne La Bibbia. E sono innumerevoli da allora i movie e i registi stranieri famosi con cui ha lavorato, tra cui citeremo soltanto Camelot di Joshua Logan, dove fu uno splendido Lancillotto, Tristana di Luis Bunuel, Querelle De Brest di Rainer Werner Fassbinder e Profezia di un delitto di Claude Chabrol fino advert arrivare a Die Arduous – 58 minuti per morire, Django Unchained, John Wick – Capitolo 2 e il prossimo The Pope’s Exorcist dove interpreta proprio il Papa. Per non parlare del lavoro in Italia con Elio Petri, Pupi Avati, Pasquale Squitieri, Pappi Corsicato, Marco Bellocchio e della miriade di movie di genere che ha interpretato. In una carriera che supera di molto i 200 titoli, solo due volte Franco Nero si è cimentato dietro la macchina da presa: la prima volta nel 2005 con Without end Blues e adesso con un movie dal titolo a dir poco suggestivo, L’uomo che disegnò Dio, di cui si è tanto parlato anche per la partecipazione in un ruolo cammeo di Kevin Spacey, che proprio con questa piccola parte fa il suo ritorno ufficiale al cinema dopo l’ostracismo preventivo per le observe vicende, risolte pare a suo favore.

Nella storia, Franco Nero è Emanuele Assuero, un anziano ebreo, musicista e pittore, che ha perso la vista da bambino. Da tempo è solo e scontroso, ma ha un dono unico: ascoltando, anche solo per poco, la voce di chi ha di fronte, riesce a ritrarlo in modo accurato. L’unico di cui non sente la voce è Dio. Tutto cambia quando conosce due immigrate, accolte nel centro diretto dall’amica e assistente sociale Pola (Stefania Rocca). Controvoglia, ospite per una sera madre e figlia a casa sua. Sarà la piccola Iaia a girare un video mentre Emanuele fa la sua “magia”, a farlo circolare in rete e a convincerlo a partecipare al Expertise Circus Present, per vincere il premio in denaro che gli permetterà (forse) di tentare un’operazione sperimentale per ritrovare la vista. Ma, ovviamente, le cose si complicano. E’ sicuramente un piccolo movie, per finances e dimensioni, L’uomo che disegnò Dio, ma dalle grandi ambizioni per i temi che tocca. Ispirato a una non meglio precisata storia vera, su soggetto dell’attore Eugenio Masciari, e scritto a sei mani con Nero e Lorenzo De Luca, è al tempo stesso un’opera di denuncia dello strapotere dell’immagine e della superficie sulla profondità dei sentimenti, la critica di un mondo in cui siamo diventati ciechi “grazie” ai social, dove la cancel tradition e il buonismo finiscono per illuderci che siamo giusti e buoni mentre continuano a essere perpetrati i peggiori crimini e la cattiva television vende il dolore e la diversità per farci sentire più “normali”.

Tutte cose condivisibili, ma che nella durata contenuta di un movie risultano un po’ ingenue, con metafore fin troppo esplicite che finiscono per soffocarlo, mentre il giusto afflato morale e civile rischia di sfociare nel moralismo. Però abbiamo riso più volte durante la visione per le battute taglienti ed efficaci del protagonista, per cui è impossibile non provare empatia. Vedere Franco Nero sul grande schermo, ammettiamolo, fa sempre un bell’effetto: il suo carisma è tuttora inalterato. Se stavolta ha rinunciato per esigenze di scena si suoi incredibili occhi di ghiaccio, basta la voce a distinguerlo dalla folla. Gli attori sono ben diretti e sorprendentemente adatti alle loro parti, grandi o piccole che siano. Se a nessuno è sfuggita l’ironia di far interpretare a Kevin Spacey un commissario che indaga su reati sessuali e vuole a tutti i costi un capro espiatorio, ritrovare questo grande attore dove deve stare, in scena, con la sua capacità di bucare lo schermo, fa un enorme piacere, tanto che quando guarda in macchina ci si aspetterebbe quasi di sentirlo rivolgersi a noi, come il Frank Underwood che non abbiamo mai dimenticato. Magari i recensori più giovani avranno fatto meno caso all’attore che appare nel ruolo dell’avvocato, Robert Davi, indimenticabile caratterista spesso per il suo volto utilizzato in ruoli da cattivo, in movie come I Goonies, dove period iJake Fratelli, Trappola di cristallo, Maniac Cop e altri.

Tra i diversi ruoli cammeo, che comprendono anche un’apparizione del sempre ottimo Massimo Ranieri, chi scrive si è particolarmente emozionata rivedendo Faye Dunaway, una delle attrici più straordinarie del cinema americano, volto simbolo degli anni Sessanta e Settanta (Chinatown, Gangster Story, Quinto potere, per citare solo qualche titolo tra i più noti), nel ruolo di un’anziana musicista in una casa di riposo, vecchia amica del protagonista. Perché la musica, are available Without end Blues, anche qua ritorna, con uno strumento antico nelle mani di Emanuele. come uno dei pochi mezzi in grado di dissipare il rumore bianco delle nostre vite. Per chi è cresciuto con la Melevisione, sarà poi un piacere rivedere Diego Casale, l’attore torinese che interpretava Re Quercia e che qua è il simpatico aiutante/complice di Emanuele (che a ben vedere così solo non è). L’uomo che disegnò Dio è girato interamente a Torino, una location che vorremmo vedere sfruttata un po’ più spesso dal nostro cinema. Insomma, c’è di tutto di più in questo piccolo movie, che nonostante tutti i suoi difetti ci fa una grande simpatia.





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